Fino a gennaio di quest’anno, i web influencer, ovvero quelle celebrità capaci di cementare attorno ai propri profili social un’autentica – e agguerritissima – comunità, potevano inserire nei loro post “suggerimenti” sponsorizzati senza doverlo segnalare agli utenti. “Com’è bello guardare il mare con i miei occhiali XY” poteva essere un contenuto ritrovabile sui profili di molte web celebrities. Il pubblico leggeva, apprezzava, commentava e condivideva senza porsi il problema se l’azienda XY avesse effettivamente corrisposto un compenso alla webstar.
Poi le cose sono cambiate, radicalmente. Negli Stati Uniti la Ftc-Federal Trade Commission ha stabilito che si dovesse necessariamente introdurre nei post un’indicazione chiara e inequivocabile che spiegasse quali fossero i contenuti realizzati in collaborazione con i diversi Brand. Da qui, l’introduzione degli hashtag #ad, #adv e #sponsored; una maggiore trasparenza nei confronti del pubblico e, al tempo stesso, un argine forte all’utilizzo dei social network come veicolo pubblicitario con pochi controlli.
In Italia, dalla fine di luglio ci si è adeguati a questa normativa attraverso l’inserimento degli hashtag alla fine del post. L’Agcm e lo IAP (l’istituto che disciplina la pubblicità) hanno avviato – a partire da febbraio – uno studio sui profili social più attivi, chiedendo ai titolari di mostrare quali fossero i rapporti che eventualmente intercorrevano con il Brand presente nel post. Alcuni influencer hanno ricevuto una raccomandata in cui si chiedeva loro un incontro chiarificatore, in cui sarebbero state dettate le linee guida per una nuova “netiquette” da applicare ai contenuti. Quindi, necessità di inserire nei post gli hashtag già impiegati negli Usa.
Come al solito, non mancano le zone grigie: che cosa succede se, ad esempio, un’azienda invia un proprio prodotto a un influencer senza un accordo di sponsorizzazione? In quel caso si può utilizzare l’hashtag #prodottofornitoda.
Fin qui, la cronaca. Ma il problema di fondo è: come reagisce il pubblico di fronte all’esplicitazione di un rapporto che fino ad ora poteva soltanto essere immaginato? In Italia non abbiamo ancora dati ufficiali, anche se si parla di un calo medio delle interazioni con i post del 20%.
In un recente convegno, però, Chiara Maci, una delle blogger più autorevoli del settore food, ha dichiarato di non aver notato alcun tipo di flessione, sia nelle interazioni, sia nei nuovi like. La sua ricetta – è proprio il caso di dirlo – è sempre stata quella di instaurare un rapporto di fiducia con il proprio pubblico. Un pubblico che rimane fedele, immaginando che se Chiara Maci ha scelto proprio quel prodotto per confezionare i propri piatti, al di là del tornaconto economico ci dovrà sicuramente essere anche una ragione qualitativa: è il meglio che si possa impiegare.
Negli Usa, invece, è stata condotta un’indagine dallo studio L2, che ha monitorato nel periodo 1° gennaio – 31 agosto l’andamento dei post sponsorizzati rispetto a quelli tradizionali. Intanto, bisogna dire che soltanto il 7% dei contenuti presenta gli hashtag che esplicitano una collaborazione. I risultati sono comunque significativi: l’influencer newyorchese Arielle Noa Charnas ha visto un calo medio del 17,7% delle interazioni sui contenuti sponsorizzati. Amber Fillerup Clark, blogger che su Instagram posta spaccati della sua vita familiare, addirittura del 22,5%.
La regina delle influencer, non soltanto in Italia, rimane Chiara Ferragni. Nel periodo preso in considerazione ha inserito gli hashtag adv e ad soltanto nel 4,7% dei casi, ricevendo un calo medio delle interazioni del 4,9%. Una flessione quindi, ma sicuramente molto più contenuta di quelle fatte registrare dalle due blogger a stelle e strisce.
Torniamo quindi al problema iniziale: qual è la vera ricetta degli influencer? Più che essere sempre bellissimi e ultra-fashion, sembra proprio essere il rapporto di fiducia l’ingrediente indispensabile per mantenersi credibili agli occhi del proprio pubblico, anche ora che va esplicitato qualsiasi intento commerciale nei post.
Una scelta, d’altronde, che è riscontrabile in tanti altri settori anche della old economy. Basta pensare al mondo dei contenuti “tradizionali”, in cui la provenienza, l’autorevolezza dell’autore o della testata e il Brand che sta alle spalle sono ragioni sufficienti per rendere credibile l’argomento. Grazia, Vogue, e altri sono diventati le “bibbie” della moda, nonostante sia chiaro a tutti che vi siano enormi interessi economici in ballo.
D’altronde, esistono testate che hanno fatto dell’accountability il proprio marchio di fabbrica. Panorama, Donna Moderna, Casa Facile, ad esempio, sono la dimostrazione tangibile di come la reputazione sia il vero valore aggiunto. E la ricerca continua e quotidiana di modalità per coltivare la fiducia delle proprie community di riferimento vale più di qualsiasi partnership. L’hashtag #ad può tramutarsi in un boomerang soltanto per quegli influencer che non hanno saputo conquistarsi la fiducia del loro pubblico.